Ultimate Landscapes

di Manuela De Leonardis
20 Gennaio 2009

Nascondere e svelare, due poli intorno a cui prendono forma le immagini di Claudio Orlandi.
Nelle pieghe dei panneggi di Ultimate Landscapes (2009) c’é la morbidezza delle vesti di S.Teresa d’Avila, il drappo che copre il volto del fiume Nilo, quello intorno al capo di S.Cecilia…
È la poetica del barocco che nutre inconsciamente lo sguardo del fotografo romano, giorno dopo giorno, in quella materiale presenza scenica. La meraviglia, la curiosità entrano nel tessuto narrativo del suo lavoro, insieme all’approccio al reale che è affrontato come un prodotto dell’immaginazione e viceversa.
Forzatamente natura e civiltà si rincorrono nell’eterna circolarità della rivendicazione del potere sull’altro. Una lotta impari che si traduce in previsioni catastrofiche.
Il monito c’é, sottinteso nelle inquadrature dell’autore: si traduce in un messaggio esplicitamente ecologicoambientalista che induce a una riflessione collettiva, perché questa possa diventare azione. La causa occasionale è una passeggiata estiva in montagna. Nell’ammirare paesaggi che dovrebbero essere incontaminati, Orlandi coglie le magagne dell’era contemporanea. È attratto dai teli geotessili che coprono i ghiacciai preservandoli dal surriscaldamento atmosferico: li fotografa, ma non gli sfuggono neanche i fili d’erba, le tracce di neve, il terriccio.
Il mezzo fotografico come taccuino su cui prendere appunti veloci per immagazzinare un’idea che si affina attraverso la sedimentazione. L’intervento di post produzione è significativo nella metodologia del suo lavoro.
All’immediatezza dello scatto succede l’elaborazione digitale che richiede un intervallo di tempo più diluito, con i singoli frame che si ricompongono in un orizzonte più ampio che lascia libertà di pensiero.
Determinante la volontà di uniformare la dominante cromatica, procedendo con l’annullamento dello sfondo, annerito per una scelta grafica e di contenuto. Un cielo “inghiottito” che non deve sollecitare distrazioni.
Questi paesaggi irreali, eppure così straordinariamente reali, diventano un momento di passaggio per ulteriori riflessioni che il fotografo riprende nel successivo Last World (2010), complementare a Ultimate Landscapes che lo precede di un anno.
Dai drappeggi barocchi alla visione dell’accumulo propria dell’arte povera: materiali metallici, residui della
tecnologia, eredità malata del progresso.
Una Roma di periferia, omologata a tante altre realtà suburbane, fa ancora una volta da scenario quando Orlandi entra nel deposito di rottami metallici. Il monocromo è soppiantato dalla vivacità cromatica delle montagne di detriti ferrosi che dopo lo stoccaggio sono destinati alla fonderia, dove verranno riciclati e reinseriti nel ciclo produttivo.
In entrambe le serie l’uomo è una presenza indiretta, evocata dalla sua azione. Alla visione catastrofica della prima, tuttavia, sembra aprirsi uno spiraglio fiducioso, quando il fotografo indugia sul filo d’erba come sul detrito di ferro. Si può, forse, guardare al futuro con un po’ di ottimismo, questo sembrerebbe il lieto fine.

Hide and reveal, two poles around which Claudio Orlandi’s images take shape.
In the folds of drapery of Ultimate Landscapes you can find the softness of Saint Terasa of Avila’s clothes, the drape that covers the face of the Nile river, the one around Saint Cecilia’s head.
The baroque poetics that feeds the Roman photographer’s vision, day by day, so plainly in the material scenic presence. An apparently subconscious encounter that is confirmed in Orlandi’s professional journey. Surprise, wonder and curiosity find their way in his work, together with his take on reality, approached like a product of the imagination and vice-versa. Ingredients that blend together, in the tension of his final vision.
Nature and civilization forcefully chase each other in the eternal circularity of power’s vindication on the other. An unequal fight translated in a catastrophic vision.
The warning is there, implicit in the author’s shots: it translates into an explicitly eco-environmental message that leads to a collective reflection, so that it can become action. The occasional cause is a summer walk in the mountains. Admiring landscapes that should be untouched, Orlandi captures the flaws of the contemporary era. He is attracted by the geotextile sheets covering the glaciers protecting them from overheating pollution: he photographs them, but traces of snow, dirt or even blades of grass, do not escape him.
He uses the photographic medium as a notebook on which to make quick notes to store an idea that is refined through sedimentation. Next intervention post-production is significant in the methodology of his work. The immediacy of the shooting phase is followed by digital processing that requires a period of time much more diluted, with the individual frames that are recomposed in a broader perspective that allows freedom of thought.
Decisive is the will to uniform color casting, preceeded by the cancellation of the background, blackened for a choice that is as much graphic as it is for content. A sky “swallowed” – noir – it does not solicit distractions.
These unreal landscapes, yet – as we know – so amazingly real, become a moment of transition for further reflection the photographer records the following Last World (2010), complementing the previous year’s Ultimate Landscapes.
From baroque drapery we move into the vision of hoariding in Arte Povera: metals, residues of technology, progress’ sick heritage.
A suburban Rome, like in many other suburban realities everywhere, is once again the backdrop to the subject, when Orlandi enters the storage of scrap metal. The monochrome sheets of geotextiles is superseded by the bright colours of the mountains of ferrous debris that after storage are allocated to the foundry, where they will be recycled and reintroduced into the production cycle.
In both series, man is an indirect presence evoked by his action. The catastrophic vision of the first – however – seems to open a window of opportunity confident, when the photographer lingers on blade of grass as the debris of iron. We might, perhaps, look to the future with a little optimism, there may be a happy ending.

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